Lavoro e Maternità

Il lessico famigliare di Natalia Ginzburg

Figura di spicco nel panorama letterario del Novecento, Natalia Ginzburg ha scritto parole importanti e ancora oggi ricche di risonanze sul suo ricominciare a scrivere dopo essere diventata madre.
Nel libro Le piccole virtù, la scrittrice mette in luce quella che, in un qualche modo, è la necessaria ambivalenza del diventare madri, il rincorrersi di desideri di vicinanza e condivisione e desideri di distanza e separatezza invocati dalla fatica e, talvolta, dalla monotonia del quotidiano.
Tipica dei primi tempi dopo la nascita è la necessità di disegnare nuove intersezioni in cui far coesistere lo spazio per l’altro, per se stessi, e per la relazione con l’altro.

“….E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli. Non capivo come avrei fatto a separarmi da loro per inseguire un tale in un racconto. M’ero messa a disprezzare il mio mestiere. Ne avevo una disperata nostalgia, ogni tanto, mi sentivo in esilio, ma mi sforzavo di disprezzarlo e deriderlo per occuparmi solo dei bambini. Credevo di dover fare così. Mi occupavo della crema di riso e della crema d’orzo e se c’era sole o se non c’era sole e se c’era vento o se non c’era vento per portare i bambini a passeggio. I bambini mi parevano una cosa troppo importante perché ci si potesse perdere dietro a delle stupide storie, stupidi personaggi imbalsamati. Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com’era bello il mio mestiere. Pensavo che l’avrei ritrovato un giorno o l’altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato a poco a poco. Non ci ho messo neppure tanto tempo. (…) Ricominciavo a scrivere come uno che non ha scritto mai, perché era già tanto tempo che non scrivevo, e le parole erano come lavate e fresche, tutto era di nuovo come intatto e pieno di sapore e di odore. Scrivevo nel pomeriggio, quando i miei bambini erano a spasso con una ragazza del paese, scrivevo con avidità e con gioia, ed era un bellissimo autunno e mi sentivo ogni giorno così felice. (…) Adesso non desideravo più tanto di scrivere come un uomo, perché avevo avuto i bambini, e mi pareva di sapere tante cose riguardo al sugo di pomodoro e anche se non le mettevo nel racconto pure serviva al mio mestiere che io le sapessi: in un modo misterioso e remoto anche questo serviva al mio mestiere. Mi pareva che le donne sapessero sui loro figli delle cose che un uomo non può mai sapere.”

In un processo di riadattamento in cui non di rado si ragiona per estremi, concedersi la possibilità di non cedere agli aut aut – per esempio facendo della maternità un’esperienza totalizzante che lascia ai margini il lavoro – può rivelare epifanie di creatività e di competenze inaspettate.

“(…)Poi a poco a poco ho capito che si poteva scrivere lo stesso, bastava trovare l’equilibrio, capisce. Insomma se uno ha davvero necessità di scrivere, scrive lo stesso. E dire io non mi sposo, io non faccio bambini perché voglio scrivere è sbagliatissimo: creda. Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente, lo ricordi.” (in un’intervista di Oriana Fallaci, luglio 1963)

Figura di spicco nel panorama letterario del Novecento, Natalia Ginzburg ha scritto parole importanti e ancora oggi ricche di risonanze sul suo ricominciare a scrivere dopo essere diventata madre.
Nel libro Le piccole virtù, la scrittrice mette in luce quella che, in un qualche modo, è la necessaria ambivalenza del diventare madri, il rincorrersi di desideri di vicinanza e condivisione e desideri di distanza e separatezza invocati dalla fatica e, talvolta, dalla monotonia del quotidiano.
Tipica dei primi tempi dopo la nascita è la necessità di disegnare nuove intersezioni in cui far coesistere lo spazio per l’altro, per se stessi, e per la relazione con l’altro.

“….E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli. Non capivo come avrei fatto a separarmi da loro per inseguire un tale in un racconto. M’ero messa a disprezzare il mio mestiere. Ne avevo una disperata nostalgia, ogni tanto, mi sentivo in esilio, ma mi sforzavo di disprezzarlo e deriderlo per occuparmi solo dei bambini. Credevo di dover fare così. Mi occupavo della crema di riso e della crema d’orzo e se c’era sole o se non c’era sole e se c’era vento o se non c’era vento per portare i bambini a passeggio. I bambini mi parevano una cosa troppo importante perché ci si potesse perdere dietro a delle stupide storie, stupidi personaggi imbalsamati. Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com’era bello il mio mestiere. Pensavo che l’avrei ritrovato un giorno o l’altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato a poco a poco. Non ci ho messo neppure tanto tempo. (…) Ricominciavo a scrivere come uno che non ha scritto mai, perché era già tanto tempo che non scrivevo, e le parole erano come lavate e fresche, tutto era di nuovo come intatto e pieno di sapore e di odore. Scrivevo nel pomeriggio, quando i miei bambini erano a spasso con una ragazza del paese, scrivevo con avidità e con gioia, ed era un bellissimo autunno e mi sentivo ogni giorno così felice. (…) Adesso non desideravo più tanto di scrivere come un uomo, perché avevo avuto i bambini, e mi pareva di sapere tante cose riguardo al sugo di pomodoro e anche se non le mettevo nel racconto pure serviva al mio mestiere che io le sapessi: in un modo misterioso e remoto anche questo serviva al mio mestiere. Mi pareva che le donne sapessero sui loro figli delle cose che un uomo non può mai sapere.”

In un processo di riadattamento in cui non di rado si ragiona per estremi, concedersi la possibilità di non cedere agli aut aut – per esempio facendo della maternità un’esperienza totalizzante che lascia ai margini il lavoro – può rivelare epifanie di creatività e di competenze inaspettate.

“(…)Poi a poco a poco ho capito che si poteva scrivere lo stesso, bastava trovare l’equilibrio, capisce. Insomma se uno ha davvero necessità di scrivere, scrive lo stesso. E dire io non mi sposo, io non faccio bambini perché voglio scrivere è sbagliatissimo: creda. Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente, lo ricordi.” (in un’intervista di Oriana Fallaci, luglio 1963)