Se (Mi) Ascolto, Capisco

Sin dalla nascita i neonati comunicano attraverso modalità non verbali con cui i genitori sono chiamati a sintonizzarsi. Tra i segnali inclusi nel loro repertorio comunicativo, il pianto è di sicuro fra i principali. Un’esperienza comune a tutti i genitori infatti è quella del pianto irrefrenabile del neonato: in questi casi il caregiver deve imparare a decifrare accuratamente ciò che l’ha innescato, procedendo inizialmente per prove ed errori. Riuscire ad essere un genitore premuroso e sensibile è in larga parte connesso all’accuratezza della comunicazione tra le due parti.

In casi più difficili, la comunicazione della diade può andare in corto circuito facendo saltare il sistema di cura. Il pianto incessante potrebbe mettere a nudo sentimenti di inadeguatezza del genitore nei confronti di un bisogno del bambino percepito come inappagabile.

Pensiamo ad un bambino che rifiuta ostinatamente di mangiare, serrando la bocca e girando la testa prima a destra e poi a sinistra per evitare il cucchiaino che il genitore gli porge. In questa situazione il genitore potrebbe scoraggiarsi al punto da non riuscire a immaginare strade alternative, per esempio cambiare alimento o regolarne la temperatura, ricorrendo invece a soluzioni autoritarie come alzare la voce o rinunciare metterndosi fuori gioco.

Adottare atteggiamenti autoritari o evitanti significa rinunciare all’ascolto del proprio bambino, mettendo in primo piano i propri e mal tollerati vissuti di frustrazione che spesso sono attribuiti all’altro. Se a prima vista infatti il disagio è dato dall’inappetenza del bambino, un’altra possibilità è che il campo sia saturo delle percezioni di scarsa autoefficacia del genitore

In questo esempio, la tenace resistenza con cui il bambino si discosta dall’aspettativa materna/paterna, può essere fonte di frustrazione perché letto dal genitore stesso come misura della sua scarsa incisività. Rimanere intrappolati nel braccio di ferro tra la paura di sbagliare e il desiderio di competenza, non di rado può inibire il genitore nell’esplorazione del suo potenziale o farlo approdare a forme di rigido autoritarismo.

Sarebbe davvero importante farsi carico di queste emozioni e chiedersi:
Con quali modelli sociali di madre/padre mi confronto? Con quale modello interno di “genitore ideale”?
Quanta importanza attribuisco al giudizio degli altri sul mio modo di essere madre/padre?
Cosa succede dentro di me se mio figlio non mangia? Potrei sentirmi meno efficace come genitore?
Ho considerato anche i suoi bisogni? Potrebbe avere troppo sonno, magari un po’ di mal di pancia o sentirsi irrequieto?

Diventa decisivo assumersi la responsabilità dei propri vissuti senza spostarli all’esterno: questa consapevolezza aiuta a regolare le emozioni più intense come la rabbia, ponendosi come fattore di resilienza anche nel rapporto col bambino.

Sin dalla nascita i neonati comunicano attraverso modalità non verbali con cui i genitori sono chiamati a sintonizzarsi. Tra i segnali inclusi nel loro repertorio comunicativo, il pianto è di sicuro fra i principali. Un’esperienza comune a tutti i genitori infatti è quella del pianto irrefrenabile del neonato: in questi casi il caregiver deve imparare a decifrare accuratamente ciò che l’ha innescato, procedendo inizialmente per prove ed errori. Riuscire ad essere un genitore premuroso e sensibile è in larga parte connesso all’accuratezza della comunicazione tra le due parti.

In casi più difficili, la comunicazione della diade può andare in corto circuito facendo saltare il sistema di cura. Il pianto incessante potrebbe mettere a nudo sentimenti di inadeguatezza del genitore nei confronti di un bisogno del bambino percepito come inappagabile.

Pensiamo ad un bambino che rifiuta ostinatamente di mangiare, serrando la bocca e girando la testa prima a destra e poi a sinistra per evitare il cucchiaino che il genitore gli porge. In questa situazione il genitore potrebbe scoraggiarsi al punto da non riuscire a immaginare strade alternative, per esempio cambiare alimento o regolarne la temperatura, ricorrendo invece a soluzioni autoritarie come alzare la voce o rinunciare metterndosi fuori gioco.

Adottare atteggiamenti autoritari o evitanti significa rinunciare all’ascolto del proprio bambino, mettendo in primo piano i propri e mal tollerati vissuti di frustrazione che spesso sono attribuiti all’altro. Se a prima vista infatti il disagio è dato dall’inappetenza del bambino, un’altra possibilità è che il campo sia saturo delle percezioni di scarsa autoefficacia del genitore

In questo esempio, la tenace resistenza con cui il bambino si discosta dall’aspettativa materna/paterna, può essere fonte di frustrazione perché letto dal genitore stesso come misura della sua scarsa incisività. Rimanere intrappolati nel braccio di ferro tra la paura di sbagliare e il desiderio di competenza, non di rado può inibire il genitore nell’esplorazione del suo potenziale o farlo approdare a forme di rigido autoritarismo.

Sarebbe davvero importante farsi carico di queste emozioni e chiedersi:
Con quali modelli sociali di madre/padre mi confronto? Con quale modello interno di “genitore ideale”?
Quanta importanza attribuisco al giudizio degli altri sul mio modo di essere madre/padre?
Cosa succede dentro di me se mio figlio non mangia? Potrei sentirmi meno efficace come genitore?
Ho considerato anche i suoi bisogni? Potrebbe avere troppo sonno, magari un po’ di mal di pancia o sentirsi irrequieto?

Diventa decisivo assumersi la responsabilità dei propri vissuti senza spostarli all’esterno: questa consapevolezza aiuta a regolare le emozioni più intense come la rabbia, ponendosi come fattore di resilienza anche nel rapporto col bambino.