Mary and Max
Adam Elliot, 2009
Quella di Mary e Max è la storia di due solitudini che si incontrano, pur rimanendo distanti.
Mary è una bambina australiana che vive un profondo disagio familiare. La madre è alcolizzata, mentre il padre svolge un lavoro alienante in una fabbrica di the, e il tempo libero lo passa a impagliare animali morti, nel tentativo di dar loro un aspetto vitale, non riuscendo forse a farlo con se stesso. Un giorno Mary decide di porre rimedio al deserto relazionale in cui si trova e, scegliendo una via che le permettesse una distanza di sicurezza, invia una lettera a un indirizzo sconosciuto di New York. Il destinatario della corrispondenza è Max, un uomo affetto dalla sindrome autistica di Asperger. Nonostante Max fatichi a comprendere i segnali non verbali, quasi come si trovasse ogni volta a decifrare un testo in lingua straniera, prova un intenso desiderio di intimità con gli altri. In passato infatti Max ha dato vita all’immaginario Mr Ravioli, una presenza invisibile, ma nondimeno nutriente in senso affettivo, come indica l’allusione culinaria.
Pur nella similarità, le loro solitudini hanno caratteristiche distintive, come evocato dal diverso colore della pellicola quando racconta dell’una o dell’altro. Le lettere di Mary sono come una finestra sul suo colorato mondo emotivo, anche se la prevalenza del marrone sembra assorbire le altre tonalità. Un po’come quando il velo della sua malinconia si posa sulle cose, omologandole tra loro. Le lettere di Max più che narrazioni sembrano inventari di attività, elenchi dettagliati di gusti, e sono dotate di un’algida simmetria che le rende bidimensionali. Le sequenze in bianco e nero ci restituiscono il mondo visto con i suoi occhi.
Mi sembra che il filo rosso che accomuna i personaggi sia un autentico desiderio di vicinanza che, nello stesso tempo, è avvertito come pericoloso, ma con le debite differenze.
Per Max infatti il pericolo ha connotazioni concrete, lo si vede quando le lettere di Mary lo sollecitano al punto da portarlo al ricovero. Possiamo intuire che le parole di Mary abbiano risvegliato una voragine di emozioni in Max che, forse per proteggersi, per un po’ pensa di recidere ogni legame con lei. In questo senso la solitudine sconfina in un più radicale isolamento, perché autoimposto e afflitto dall’assenza di speranza.
La solitudine di Mary, invece, sembra mostrarci anche il suo volto creativo (si pensi alla pubblicazione del libro!) tanto che in un certo senso possiamo pensare abbia varcato la soglia della clausura, convertendosi in una potente sensibilità. Come quando regala una bottiglietta con le sue lacrime a Max, incapace di piangere, se non tagliando le cipolle.
Quella di Mary e Max è la storia di due solitudini che si incontrano, pur rimanendo distanti.
Mary è una bambina australiana che vive un profondo disagio familiare. La madre è alcolizzata, mentre il padre svolge un lavoro alienante in una fabbrica di the, e il tempo libero lo passa a impagliare animali morti, nel tentativo di dar loro un aspetto vitale, non riuscendo forse a farlo con se stesso. Un giorno Mary decide di porre rimedio al deserto relazionale in cui si trova e, scegliendo una via che le permettesse una distanza di sicurezza, invia una lettera a un indirizzo sconosciuto di New York. Il destinatario della corrispondenza è Max, un uomo affetto dalla sindrome autistica di Asperger. Nonostante Max fatichi a comprendere i segnali non verbali, quasi come si trovasse ogni volta a decifrare un testo in lingua straniera, prova un intenso desiderio di intimità con gli altri. In passato infatti Max ha dato vita all’immaginario Mr Ravioli, una presenza invisibile, ma nondimeno nutriente in senso affettivo, come indica l’allusione culinaria.
Pur nella similarità, le loro solitudini hanno caratteristiche distintive, come evocato dal diverso colore della pellicola quando racconta dell’una o dell’altro. Le lettere di Mary sono come una finestra sul suo colorato mondo emotivo, anche se la prevalenza del marrone sembra assorbire le altre tonalità. Un po’come quando il velo della sua malinconia si posa sulle cose, omologandole tra loro. Le lettere di Max più che narrazioni sembrano inventari di attività, elenchi dettagliati di gusti, e sono dotate di un’algida simmetria che le rende bidimensionali. Le sequenze in bianco e nero ci restituiscono il mondo visto con i suoi occhi.
Mi sembra che il filo rosso che accomuna i personaggi sia un autentico desiderio di vicinanza che, nello stesso tempo, è avvertito come pericoloso, ma con le debite differenze.
Per Max infatti il pericolo ha connotazioni concrete, lo si vede quando le lettere di Mary lo sollecitano al punto da portarlo al ricovero. Possiamo intuire che le parole di Mary abbiano risvegliato una voragine di emozioni in Max che, forse per proteggersi, per un po’ pensa di recidere ogni legame con lei. In questo senso la solitudine sconfina in un più radicale isolamento, perché autoimposto e afflitto dall’assenza di speranza.
La solitudine di Mary, invece, sembra mostrarci anche il suo volto creativo (si pensi alla pubblicazione del libro!) tanto che in un certo senso possiamo pensare abbia varcato la soglia della clausura, convertendosi in una potente sensibilità. Come quando regala una bottiglietta con le sue lacrime a Max, incapace di piangere, se non tagliando le cipolle.
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