I'm Here

Spike Jonze, 2010

In una Los Angeles dalle tinte distopiche, dove robot umanizzati e uomini sempre meno umani convivono, il robot Sheldon conduce un’esistenza lacerata dalla solitudine.

La prima sequenza del corto mette in luce la sua malinconia palpitante: dal finestrino del bus che prende ogni giorno per andare e tornare dal lavoro in una biblioteca, Sheldon vede scorrere la vita (degli altri) davanti ai suoi occhi. Già, degli altri, perché nonostante i suoi vani ed esitanti tentativi di stabilire dei contatti, Sheldon accetta con apparente rassegnazione la sua sorte di negletto. Ma un giorno incontra Francesca, robot allegro e caparbio che sembra capace, non solo di guidare – nonostante il divieto per i robot – , ma anche di guidarsi. Anche Francesca, a dispetto delle apparenze, è in attesa di uno sguardo di riconoscimento tanto che attacca in giro, a mò di cartello stradale, delle immagini stilizzate del suo volto con scritto “I’m here”.

Attraverso questa relazione, Sheldon sembra trainato ad alzarsi dal posto finestrino da cui osservava gli altri e a sfidare la paura di essere travolto, come il robot investito nei fotogrammi iniziali, ma stavolta dalle emozioni. Mosso da un’inarrestabile abnegazione, Sheldon tenta di ricucire gli strappi che Francesca si autoinfligge (accidentalmente?) a più riprese, donando letteralmente parti di se stesso, fino a perdere la sua identità.

Mi sembra che questo corto apra una riflessione sul desiderio, intrinsecamente umano, di essere visti. Nel video il riconoscimento tanto anelato dai protagonisti, sembra ottenibile sia dando parti di sé fino ad annullarsi, sia ricevendo le cure dell’altro senza mai sentirsi appagati. In entrambi i casi è come se si perdessero i limiti di questo desiderio che, dopo essere stato tanto trascurato, una volta liberato sembra assumere dimensioni totalizzanti.

In una Los Angeles dalle tinte distopiche, dove robot umanizzati e uomini sempre meno umani convivono, il robot Sheldon conduce un’esistenza lacerata dalla solitudine.

La prima sequenza del corto mette in luce la sua malinconia palpitante: dal finestrino del bus che prende ogni giorno per andare e tornare dal lavoro in una biblioteca, Sheldon vede scorrere la vita (degli altri) davanti ai suoi occhi. Già, degli altri, perché nonostante i suoi vani ed esitanti tentativi di stabilire dei contatti, Sheldon accetta con apparente rassegnazione la sua sorte di negletto. Ma un giorno incontra Francesca, robot allegro e caparbio che sembra capace, non solo di guidare – nonostante il divieto per i robot – , ma anche di guidarsi. Anche Francesca, a dispetto delle apparenze, è in attesa di uno sguardo di riconoscimento tanto che attacca in giro, a mò di cartello stradale, delle immagini stilizzate del suo volto con scritto “I’m here”.

Attraverso questa relazione, Sheldon sembra trainato ad alzarsi dal posto finestrino da cui osservava gli altri e a sfidare la paura di essere travolto, come il robot investito nei fotogrammi iniziali, ma stavolta dalle emozioni. Mosso da un’inarrestabile abnegazione, Sheldon tenta di ricucire gli strappi che Francesca si autoinfligge (accidentalmente?) a più riprese, donando letteralmente parti di se stesso, fino a perdere la sua identità.

Mi sembra che questo corto apra una riflessione sul desiderio, intrinsecamente umano, di essere visti. Nel video il riconoscimento tanto anelato dai protagonisti, sembra ottenibile sia dando parti di sé fino ad annullarsi, sia ricevendo le cure dell’altro senza mai sentirsi appagati. In entrambi i casi è come se si perdessero i limiti di questo desiderio che, dopo essere stato tanto trascurato, una volta liberato sembra assumere dimensioni totalizzanti.

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