Perché la Psicoterapia non è una Bacchetta Magica

Spesso le persone si rivolgono alla psicoterapia sperando di ottenere risultati immediati. Nonostante questo desiderio sia del tutto comprensibile, il punto è che anche guidando più veloci, non si riesce ad arrivare prima se non si sa dove si sta andando.

L’attesa che, dopo qualche incontro, il terapeuta possa indicare direzioni da seguire e fornire interpretazioni apre a una serie di riflessioni.
Immaginiamo di rivolgerci ad un medico per un intenso mal di testa e, dopo una rapida occhiata, di ricevere una cura. Se da un lato l’idea di un intervento immediato dà sollievo, dall’altro non sarebbe preferibile che il medico si adoperasse con maggiore attenzione e facesse tutti gli accertamenti necessari prima di pronunciarsi sulla diagnosi e quindi sul tipo di trattamento?

In termini psicoanalitici, tollerare la frustrazione che deriva da un mancato o ostacolato appagamento di un bisogno, è parte integrante del trattamento. Il motivo è che solo in questo spazio di privazione è possibile imparare a riflettere sui propri desideri, sul senso di vuoto che lasciano e sulla loro importanza. Al contrario, se la gratificazione è tascabile, il senso di perdita e di vuoto sono spazzati via e, con loro, lo spazio di riflessione.

Se fin da bambino un paziente ha vissuto relazioni poco validanti coi propri genitori, e il terapeuta gli offre sistematicamente esperienze attivamente validanti (accondiscende a richieste di amicizia, permette telefonate in orari e in giorni non lavorativi, non fa pagare le sedute…), soddisfacendo il suo bisogno, il processo di analisi è compromesso. Al contrario, il clinico dovrebbe analizzare col paziente i significati che ruotano attorno al suo desiderio di validazione, perché ciò che è terapeutico per i pazienti, non è avere genitori “migliori”, ma avere la possibilità di usare l’analista per elaborare i sentimenti legati alle proprie esperienze precedenti. Ed è proprio questo farsi da parte del terapeuta e, a sua volta, tollerare la frustrazione di assistere al bisogno di un paziente senza mettere subito a tacere la sua sofferenza, che costituisce di per sé una risposta affettiva e di cura.

A volte può essere decisamente faticoso per il clinico riuscire a calibrarsi per trovare la “dose di frustrazione” ottimale per quello specifico paziente. Tuttavia se il terapeuta è consapevole di quanto prezioso può essere il suo contributo per l’altro, saprà fornire quei confini che fanno sentire il paziente, sì un po’ limitato, ma al tempo stesso anche decisamente al sicuro, perché i parapetti permettono di giocare e di esplorare senza farsi male.

Spesso le persone si rivolgono alla psicoterapia sperando di ottenere risultati immediati. Nonostante questo desiderio sia del tutto comprensibile, il punto è che anche guidando più veloci, non si riesce ad arrivare prima se non si sa dove si sta andando.

L’attesa che, dopo qualche incontro, il terapeuta possa indicare direzioni da seguire e fornire interpretazioni apre a una serie di riflessioni.
Immaginiamo di rivolgerci ad un medico per un intenso mal di testa e, dopo una rapida occhiata, di ricevere una cura. Se da un lato l’idea di un intervento immediato dà sollievo, dall’altro non sarebbe preferibile che il medico si adoperasse con maggiore attenzione e facesse tutti gli accertamenti necessari prima di pronunciarsi sulla diagnosi e quindi sul tipo di trattamento?

In termini psicoanalitici, tollerare la frustrazione che deriva da un mancato o ostacolato appagamento di un bisogno, è parte integrante del trattamento. Il motivo è che solo in questo spazio di privazione è possibile imparare a riflettere sui propri desideri, sul senso di vuoto che lasciano e sulla loro importanza. Al contrario, se la gratificazione è tascabile, il senso di perdita e di vuoto sono spazzati via e, con loro, lo spazio di riflessione.

Se fin da bambino un paziente ha vissuto relazioni poco validanti coi propri genitori, e il terapeuta gli offre sistematicamente esperienze attivamente validanti (accondiscende a richieste di amicizia, permette telefonate in orari e in giorni non lavorativi, non fa pagare le sedute…), soddisfacendo il suo bisogno, il processo di analisi è compromesso. Al contrario, il clinico dovrebbe analizzare col paziente i significati che ruotano attorno al suo desiderio di validazione, perché ciò che è terapeutico per i pazienti, non è avere genitori “migliori”, ma avere la possibilità di usare l’analista per elaborare i sentimenti legati alle proprie esperienze precedenti. Ed è proprio questo farsi da parte del terapeuta e, a sua volta, tollerare la frustrazione di assistere al bisogno di un paziente senza mettere subito a tacere la sua sofferenza, che costituisce di per sé una risposta affettiva e di cura.

A volte può essere decisamente faticoso per il clinico riuscire a calibrarsi per trovare la “dose di frustrazione” ottimale per quello specifico paziente. Tuttavia se il terapeuta è consapevole di quanto prezioso può essere il suo contributo per l’altro, saprà fornire quei confini che fanno sentire il paziente, sì un po’ limitato, ma al tempo stesso anche decisamente al sicuro, perché i parapetti permettono di giocare e di esplorare senza farsi male.

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