Il Silenzio nella Terapia Psicoanalitica

Il silenzio è una comunicazione, parlare o stare zitti sono omologhi.
Il silenzio è parola (…).
Se un paziente sta in silenzio, parla.
Si tratta solo di capire cosa significa il silenzio in ogni caso.
(Paolo Migone)1

In music, silence is more important than sound.
(Miles Davis)

Uno dei segni distintivi del trattamento psicoanalitico, oltre all’uso del lettino e alla durata prolungata del trattamento, è l’immagine icastica del terapeuta silenzioso.
L’uso terapeutico del silenzio è da intendersi come un tipo attento di ascolto che insegna al paziente un nuovo modo di pensare, basato sulle libere associazioni.
La seduta inizia col silenzio del terapeuta, e col compito assegnato al paziente di parlare di tutto quello che gli viene in mente, badando ad astenersi da ogni giudizio circa il materiale ri-evocato. Il terapeuta rimane in silenzio finché non individua il contenuto latente della seduta: alla stregua di un sogno che, secondo Freud, ha un contenuto manifesto (scena onirica) e un contenuto latente (significato inconscio), anche il racconto del paziente ha un significato inconscio sotteso da esplorare. In questo processo il paziente “deve essere libero” (ingiunzione paradossale) di abbandonarsi a fantasie, pensieri, immagini, ricordi, in una catena associativa non lineare, e il terapeuta non dovrebbe intervenire col rischio di interferire col flusso di coscienza del paziente.

A volte può essere frustrante per il terapeuta stare in silenzio perché ciò significa rinunciare a esprimere quello che pensa e che ritiene importante: in tali casi il terapeuta dovrebbe chiedersi se il suo intervento è davvero utile al paziente o se, per esempio, risponde a un suo bisogno narcisistico.
Altre volte il terapeuta sta in silenzio perché non coglie il significato latente della comunicazione del paziente e quindi deve tollerare la frustrazione di non sapere, anche per diverse sedute. In altre occasioni il silenzio può aiutare il terapeuta a verificare delle ipotesi che preferisce non esplicitare per non condizionare il decorso della seduta. Questo tempo di attesa può non riguardare la “bravura” del terapeuta o il suo atteggiamento difensivo verso alcuni argomenti portati dal paziente, ma spesso dipende dalla necessità del paziente di approcciare un tema sensibile con gradualità, mantenendo fumosa la comunicazione per alcune sedute per non farsi scoprire dal terapeuta o, addirittura, per testare la sua reazione.
Lo psicoanalista W. Bion parla della “capacità negativa” del terapeuta di porsi di fronte alla comunicazione del paziente senza memoria né desiderio, ovvero in una disposizione di attesa passiva, senza aspettative, sospendendo la conoscenza che si ha di quel paziente per non condizionare l’ascolto.

Quando un terapeuta sta “troppo” in silenzio può non fornire un buon servizio a un paziente oltremodo ansioso, perché rischia di gettarlo in uno stato di ulteriore preoccupazione. Quest’ultima può dipendere, oltre che da caratteristiche precipue del paziente, anche dalla sua poca familiarità col mondo analitico, da caratteristiche dell’analista che possono evocare in lui una sorta di soggezione come un certo aspetto fisico o tono della voce, dal particolare arredamento o dall’odore della stanza d’analisi che fanno riaffiorare delle memorie implicite. In queste situazioni le parole del terapeuta possono regolare l’ansia del paziente e contenere i suoi vissuti di spavento, preparando dunque il terreno per l’esplorazione dei possibili significati dietro a quello stato d’animo. Pensiamo a un paziente particolarmente ritirato, che ha difficoltà anche a rispondere al telefono o a entrare in un negozio e chiedere ciò di cui ha bisogno: anche se la regola prevede che sia il paziente a iniziare, attenervisi rigidamente significa riattualizzare la sua frustrazione anche nella stanza d’analisi; al contrario, dare un input può aiutarlo ad esplorare la sua difficoltà.

Dall’altro lato, se un terapeuta parla “troppo” potrebbe rivelare il bisogno di dimostrare la propria competenza e professionalità perché le sente minacciate. Ciò può ricondursi ad alcune caratteristiche del paziente o agli argomenti particolarmente risonanti che mette a tema, all’essere ancora agli albori della professione, al vivere un momento di stallo lavorativo, a vicissitudini personali che hanno in qualche modo intaccato il senso di adeguatezza del clinico. Il terapeuta potrebbe perciò fare interpretazioni premature, dare risposte che più che portare il paziente a esplorare i suoi vissuti, lo inducono a smettere di interrogarsi, a chiudere l’indagine su di sé. Pensiamo a un terapeuta che, di fronte al pianto del paziente, prontamente tenta di lenire la sua sofferenza con qualche frase consolatoria. In questa circostanza il terapeuta anziché stare nella sofferenza assieme al paziente, traduce in azioni il suo disagio ponendolo al centro, a scapito di quello del paziente (che oltretutto sarà gravato dal disagio del terapeuta).

In alcuni casi è il “parlare troppo” del paziente a consegnare il terapeuta in un silenzio coatto. Parlo di quelle situazioni in cui il parlare senza sosta del paziente è usato in senso difensivo cioè per non dire nulla o per impedire al terapeuta di dare il suo contributo, temuto (“cosa dirà di me che ancora non so?”) o magari anche invidiato (accettare una competenza dell’altro superiore alla propria circa questi temi). Tipica è la situazione in cui il paziente “parla senza dire” per 50 minuti, ma sulla soglia  della porta (e della seduta) fa una comunicazione estremamente significativa, che tuttavia non può essere esplorata.
Un po’ come quei film ambientati in una sola location, penso a Carnage di Polanski o all’Angelo Sterminatore di Buñuel, quando questi pazienti non hanno più bisogno di muoversi da una location all’altra della loro vita, ma possono soffermarsi al centro dell’inquadratura per capire quello che succede dentro di loro, allora inizia davvero l’analisi. Lo psicoanalista M. Khan parla della capacità di “stare a maggese” in analogia ai terreni che periodicamente vengono lasciati a riposo, arati e concimati, ma non seminati, per ritrovare la giusta fertilità. Così gli individui hanno bisogno di sostare sui propri vissuti, sui propri pensieri e sulle proprie esperienze, senza darsi subito delle risposte che mettono un punto al processo autoriflessivo impedendo di andare in profondità. E a volte questa conquista può diventare più di un mezzo, ma l’obiettivo dell’analisi.

[1] https://www.youtube.com/watch?v=_dNLON0S1tQ

Il silenzio è una comunicazione, parlare o stare zitti sono omologhi.
Il silenzio è parola (…).
Se un paziente sta in silenzio, parla.
Si tratta solo di capire cosa significa il silenzio in ogni caso.
(Paolo Migone)1

In music, silence is more important than sound.
(Miles Davis)

Uno dei segni distintivi del trattamento psicoanalitico, oltre all’uso del lettino e alla durata prolungata del trattamento, è l’immagine icastica del terapeuta silenzioso.
L’uso terapeutico del silenzio è da intendersi come un tipo attento di ascolto che insegna al paziente un nuovo modo di pensare, basato sulle libere associazioni.
La seduta inizia col silenzio del terapeuta, e col compito assegnato al paziente di parlare di tutto quello che gli viene in mente, badando ad astenersi da ogni giudizio circa il materiale ri-evocato. Il terapeuta rimane in silenzio finché non individua il contenuto latente della seduta: alla stregua di un sogno che, secondo Freud, ha un contenuto manifesto (scena onirica) e un contenuto latente (significato inconscio), anche il racconto del paziente ha un significato inconscio sotteso da esplorare. In questo processo il paziente “deve essere libero” (ingiunzione paradossale) di abbandonarsi a fantasie, pensieri, immagini, ricordi, in una catena associativa non lineare, e il terapeuta non dovrebbe intervenire col rischio di interferire col flusso di coscienza del paziente.

A volte può essere frustrante per il terapeuta stare in silenzio perché ciò significa rinunciare a esprimere quello che pensa e che ritiene importante: in tali casi il terapeuta dovrebbe chiedersi se il suo intervento è davvero utile al paziente o se, per esempio, risponde a un suo bisogno narcisistico.
Altre volte il terapeuta sta in silenzio perché non coglie il significato latente della comunicazione del paziente e quindi deve tollerare la frustrazione di non sapere, anche per diverse sedute. In altre occasioni il silenzio può aiutare il terapeuta a verificare delle ipotesi che preferisce non esplicitare per non condizionare il decorso della seduta. Questo tempo di attesa può non riguardare la “bravura” del terapeuta o il suo atteggiamento difensivo verso alcuni argomenti portati dal paziente, ma spesso dipende dalla necessità del paziente di approcciare un tema sensibile con gradualità, mantenendo fumosa la comunicazione per alcune sedute per non farsi scoprire dal terapeuta o, addirittura, per testare la sua reazione.
Lo psicoanalista W. Bion parla della “capacità negativa” del terapeuta di porsi di fronte alla comunicazione del paziente senza memoria né desiderio, ovvero in una disposizione di attesa passiva, senza aspettative, sospendendo la conoscenza che si ha di quel paziente per non condizionare l’ascolto.

Quando un terapeuta sta “troppo” in silenzio può non fornire un buon servizio a un paziente oltremodo ansioso, perché rischia di gettarlo in uno stato di ulteriore preoccupazione. Quest’ultima può dipendere, oltre che da caratteristiche precipue del paziente, anche dalla sua poca familiarità col mondo analitico, da caratteristiche dell’analista che possono evocare in lui una sorta di soggezione come un certo aspetto fisico o tono della voce, dal particolare arredamento o dall’odore della stanza d’analisi che fanno riaffiorare delle memorie implicite. In queste situazioni le parole del terapeuta possono regolare l’ansia del paziente e contenere i suoi vissuti di spavento, preparando dunque il terreno per l’esplorazione dei possibili significati dietro a quello stato d’animo. Pensiamo a un paziente particolarmente ritirato, che ha difficoltà anche a rispondere al telefono o a entrare in un negozio e chiedere ciò di cui ha bisogno: anche se la regola prevede che sia il paziente a iniziare, attenervisi rigidamente significa riattualizzare la sua frustrazione anche nella stanza d’analisi; al contrario, dare un input può aiutarlo ad esplorare la sua difficoltà.

Dall’altro lato, se un terapeuta parla “troppo” potrebbe rivelare il bisogno di dimostrare la propria competenza e professionalità perché le sente minacciate. Ciò può ricondursi ad alcune caratteristiche del paziente o agli argomenti particolarmente risonanti che mette a tema, all’essere ancora agli albori della professione, al vivere un momento di stallo lavorativo, a vicissitudini personali che hanno in qualche modo intaccato il senso di adeguatezza del clinico. Il terapeuta potrebbe perciò fare interpretazioni premature, dare risposte che più che portare il paziente a esplorare i suoi vissuti, lo inducono a smettere di interrogarsi, a chiudere l’indagine su di sé. Pensiamo a un terapeuta che, di fronte al pianto del paziente, prontamente tenta di lenire la sua sofferenza con qualche frase consolatoria. In questa circostanza il terapeuta anziché stare nella sofferenza assieme al paziente, traduce in azioni il suo disagio ponendolo al centro, a scapito di quello del paziente (che oltretutto sarà gravato dal disagio del terapeuta).

In alcuni casi è il “parlare troppo” del paziente a consegnare il terapeuta in un silenzio coatto. Parlo di quelle situazioni in cui il parlare senza sosta del paziente è usato in senso difensivo cioè per non dire nulla o per impedire al terapeuta di dare il suo contributo, temuto (“cosa dirà di me che ancora non so?”) o magari anche invidiato (accettare una competenza dell’altro superiore alla propria circa questi temi). Tipica è la situazione in cui il paziente “parla senza dire” per 50 minuti, ma sulla soglia  della porta (e della seduta) fa una comunicazione estremamente significativa, che tuttavia non può essere esplorata.
Un po’ come quei film ambientati in una sola location, penso a Carnage di Polanski o all’Angelo Sterminatore di Buñuel, quando questi pazienti non hanno più bisogno di muoversi da una location all’altra della loro vita, ma possono soffermarsi al centro dell’inquadratura per capire quello che succede dentro di loro, allora inizia davvero l’analisi. Lo psicoanalista M. Khan parla della capacità di “stare a maggese” in analogia ai terreni che periodicamente vengono lasciati a riposo, arati e concimati, ma non seminati, per ritrovare la giusta fertilità. Così gli individui hanno bisogno di sostare sui propri vissuti, sui propri pensieri e sulle proprie esperienze, senza darsi subito delle risposte che mettono un punto al processo autoriflessivo impedendo di andare in profondità. E a volte questa conquista può diventare più di un mezzo, ma l’obiettivo dell’analisi.

[1] https://www.youtube.com/watch?v=_dNLON0S1tQ

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