Cosa Fa di una Psicoterapia un Percorso Realmente Terapeutico?

Lungo il percorso formativo noi psicoterapeuti veniamo allenati a fare un certo uso delle nostre emozioni.

Gli approcci psicoanalitici più ortodossi prevedono, per esempio, che il terapeuta non riveli informazioni personali, oppure che limiti manifestazioni emotive troppo marcate come la commozione o una risata aperta a un racconto del paziente o, ancora, che eluda le domande dirette per non svelarsi troppo.

Benché molte di queste indicazioni abbiano una ragione d’essere davvero importante (per esempio mantenere il paziente (e non il terapeuta) al centro del trattamento, non sfruttare il proprio ruolo per influenzare l’altro con opinioni soggettive e così via), da un altro punto di vista non è proprio questa  ricerca della neutralità che porta il paziente a interrogarsi sulla figura del terapeuta distogliendosi dal lavoro su di sé?

L’approccio psicoanalitico relazionale concepisce la sofferenza dell’individuo come l’esito di particolari configurazioni relazionali. Il lavoro terapeutico è volto a comprendere il contributo del paziente nel perpetuare queste configurazioni disfunzionali, a partire dall’analisi della relazione instaurata con l’analista – microcosmo delle altre relazioni della sua vita. Va da sé che il terapeuta non possa esimersi dal mettersi in gioco appieno col paziente, usando la sua umanità come principale strumento per conoscere l’altro e per aiutarlo a conoscersi.

In fondo se lo scopo della psicoterapia è quello di aiutare il paziente a sviluppare una maggiore autoconsapevolezza che lo porti a essere più autentico anche nelle sue relazioni, allora la capacità di relazionarsi in modo autentico dovrebbe essere un prerequisito del terapeuta.

Come dimostra il numero crescente di evidenze sui fattori curativi in psicoterapia, non sono tanto il sapere teorico e le competenze tecniche (benché condizioni sine qua non ) a fare la differenza, quanto i fattori umani del terapeuta.

Per fattori umani intendo, per dirla con I. Yalom,  la capacità:

  • di farsi coinvolgere dal paziente riconoscendo che è importante
  • di imparare da lui in quanto è lui l’esperto di se stesso
  • di porsi autenticamente, per esempio, riconoscendo i propri errori
  • di usare i propri sentimenti come dati e non come fattori di disturbo
  • di essere genuino e trasparente
  • di fornire dei feedback in maniera gentile e sensibile
  • di creare una terapia nuova per ogni paziente
  • di aiutare il paziente ad assumersi le proprie responsabilità (al posto dei consigli, offrirgli il modo di vedere il suo contributo nel perpetuare la sua sofferenza, anche laddove è un contributo limitato)
  • nell’esprimere apertamente i suoi dilemmi modellando per il paziente l’idea che anche se non so una cosa, va (e vado) bene lo stesso
  • di ricordarsi di prendere appunti e di pensare al paziente
  • di incoraggiare l’espressione emotiva del paziente e poi di sostenerlo a riflettervi su
  • di intendere la psicoterapia come una prova generale per la vita, non come un suo surrogato
  • di essere un terapeuta che ha cura anche della sua vita personale, in modo che le sue insoddisfazioni private non si riversino sulla relazione terapeutica

Se è vero che le persone si ammalano attraverso le relazioni, è anche vero che attraverso le relazioni le persone possono guarire ed evolvere. In fondo che cos’è la terapia se non un processo di cura che avviene attraverso la relazione?

Lungo il percorso formativo noi psicoterapeuti veniamo allenati a fare un certo uso delle nostre emozioni.

Gli approcci psicoanalitici più ortodossi prevedono, per esempio, che il terapeuta non riveli informazioni personali, oppure che limiti manifestazioni emotive troppo marcate come la commozione o una risata aperta a un racconto del paziente o, ancora, che eluda le domande dirette per non svelarsi troppo.

Benché molte di queste indicazioni abbiano una ragione d’essere davvero importante (per esempio mantenere il paziente (e non il terapeuta) al centro del trattamento, non sfruttare il proprio ruolo per influenzare l’altro con opinioni soggettive e così via), da un altro punto di vista non è proprio questa  ricerca della neutralità che porta il paziente a interrogarsi sulla figura del terapeuta distogliendosi dal lavoro su di sé?

L’approccio psicoanalitico relazionale concepisce la sofferenza dell’individuo come l’esito di particolari configurazioni relazionali. Il lavoro terapeutico è volto a comprendere il contributo del paziente nel perpetuare queste configurazioni disfunzionali, a partire dall’analisi della relazione instaurata con l’analista – microcosmo delle altre relazioni della sua vita. Va da sé che il terapeuta non possa esimersi dal mettersi in gioco appieno col paziente, usando la sua umanità come principale strumento per conoscere l’altro e per aiutarlo a conoscersi.

In fondo se lo scopo della psicoterapia è quello di aiutare il paziente a sviluppare una maggiore autoconsapevolezza che lo porti a essere più autentico anche nelle sue relazioni, allora la capacità di relazionarsi in modo autentico dovrebbe essere un prerequisito del terapeuta.

Come dimostra il numero crescente di evidenze sui fattori curativi in psicoterapia, non sono tanto il sapere teorico e le competenze tecniche (benché condizioni sine qua non ) a fare la differenza, quanto i fattori umani del terapeuta.

Per fattori umani intendo, per dirla con I. Yalom,  la capacità:

  • di farsi coinvolgere dal paziente riconoscendo che è importante
  • di imparare da lui in quanto è lui l’esperto di se stesso
  • di porsi autenticamente, per esempio, riconoscendo i propri errori
  • di usare i propri sentimenti come dati e non come fattori di disturbo
  • di essere genuino e trasparente
  • di fornire dei feedback in maniera gentile e sensibile
  • di creare una terapia nuova per ogni paziente
  • di aiutare il paziente ad assumersi le proprie responsabilità (al posto dei consigli, offrirgli il modo di vedere il suo contributo nel perpetuare la sua sofferenza, anche laddove è un contributo limitato)
  • nell’esprimere apertamente i suoi dilemmi modellando per il paziente l’idea che anche se non so una cosa, va (e vado) bene lo stesso
  • di ricordarsi di prendere appunti e di pensare al paziente
  • di incoraggiare l’espressione emotiva del paziente e poi di sostenerlo a riflettervi su
  • di intendere la psicoterapia come una prova generale per la vita, non come un suo surrogato
  • di essere un terapeuta che ha cura anche della sua vita personale, in modo che le sue insoddisfazioni private non si riversino sulla relazione terapeutica

Se è vero che le persone si ammalano attraverso le relazioni, è anche vero che attraverso le relazioni le persone possono guarire ed evolvere. In fondo che cos’è la terapia se non un processo di cura che avviene attraverso la relazione?

Comments are closed.